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Arabia Saudita: luci e ombre

L’Arabia Saudita rappresenta un unicum non solo nella regione, ma in tutto il mondo islamico perché è l’unico Paese a non aver implementato un processo di codificazione e modernizzazione del diritto e, di conseguenza, formalmente (e in certa misura anche sostanzialmente) il diritto applicabile è la sharì’a.

Atteso dunque che le fonti normative sono prevalentemente religiose, salvo poche eccezioni che riguardano soprattutto il diritto commerciale, le caratteristiche – anche deteriori – del sistema giuridico saudita non possono essere considerate paradigmatiche del mondo islamico, ma sintomatiche della peculiarità saudita. Per esempio, viene ancora praticata la lapidazione in caso di adulterio, sebbene il Corano stabilisca solo la fustigazione o l’amputazione degli arti in caso di furto (che trova invece la sua ragion d’essere in un versetto coranico). È anche prevista la condanna a morte dell’apostata, benché numerosi versetti del Corano la condannino duramente.
(Per questi argomenti, cfr. Deborah Scolart, 2013).

Dal 1938, anno della scoperta del petrolio, l’Arabia Saudita ha vissuto un’epoca di grande prosperità economica che ha favorito l’avvio di moderate riforme politiche, istituzionali e giuridiche, sempre però compatibili con il carattere islamico del regno saudita e senza che fosse intaccato il “diritto della persona”.

Neppure il “diritto di famiglia” ha subíto alcun processo di riforma. Emblematico è il caso della poligamia, che non solo è ancora ammessa, ma è addirittura incoraggiata e talvolta percepita come dovere religioso, oppure come un’ostentazione del proprio benessere economico, in alternativa, giustificata come rimedio popolare per riequilibrare il rapporto tra uomini e donne, per incrementare la popolazione e accrescere la forza lavoro.

Dopo un periodo in cui il fenomeno sembrava in declino, di recente ha ripreso vigore, in parte per il benessere economico acquisito dalla popolazione, in parte per l’esigenza di tornare a presunti valori religiosi.

IL PRINCIPE MOHAMMED BIN SALMAN

All’inizio degli anni Ottanta i cinema vengono banditi. In quegli anni sono drasticamente scoraggiati l’intrattenimento pubblico e tutte le forme di divertimento.

Quasi 40 anni dopo, nel 2018, riaprono le prime sale cinematografiche ed entro il 2030 l’Arabia Saudita ha in programma di aprirne almeno altre 300 con oltre 2.000 schermi. Si stima in 90 miliardi di riyal (24 miliardi di dollari statunitensi) il contributo all’economia e si prevede la creazione di 30mila posti di lavoro permanenti, sempre entro il 2030.

Partiamo da questo emblematico cambio di direzione a 180° per parlare dell’aria di cambiamento che soffia sul Paese da circa cinque anni: cosa è successo?

Nel 2017, a soli 32 anni, il Principe Mohammed bin Salman Al Da’ud (Mbs) viene nominato erede al trono dell’Arabia Saudita e ne diviene, di fatto, il capo politico assoluto.

Non appena eletto, oltreché dare impulso a una vasta riforma economica, già avviata come Ministro degli affari economici e dello sviluppo, mette mano a un programma di ammodernamento culturale del Paese e introduce alcune novità di grande impatto (talvolta più di carattere emotivo che sostanziale. Si ricorda, per tutte, l’eliminazione del divieto per le donne di prendere la patente, ma non sembra sia ancora molto frequente vedere rappresentanti del genere femminile alla guida di automobili).

Il Principe si spende molto per lo sviluppo culturale dell’Arabia Saudita e per la diffusione dell’arte Saudita. In tutto il mondo vengono organizzate mostre, conferenze di presentazione del patrimonio culturale in università americane, aperti siti archeologici per calamitare turisti nazionali e stranieri.

Il Principe vede nella cultura “il petrolio del futuro” e perciò lancia la sua campagna di conquista globale che in Italia è culminata nel tentativo di entrare nel consiglio d’amministrazione della Scala di Milano (tentativo fallito, nonostante i 22 milioni di euro pronti a essere investiti nell’istituzione milanese).

Gli investimenti per l’ammodernamento del Paese sono tutti illustrati nel piano di diversificazione economica denominato “Vision 2030”.

Mbs punta a trasformare l’immagine del Paese, baluardo dell’Islam tradizionalista, almeno agli occhi del mondo occidentale, in Stato illuminato con una società liberale, ottimo partner diplomatico e commerciale.

Per promuovere la cultura Mbs ha dato vita alla Fondazione Misk che ha organizzato la prima fiera del libro d’arte della regione a Jeddah e a Dubai e curato mostre a Parigi, Washington, New York e Los Angeles. All’inizio del 2018 il Principe ha reso noto il piano per la creazione di un nuovo centro d’arte a Parigi, mentre il Misk Art Institute, nello stesso anno, ha rappresentato l’Arabia Saudita al padiglione nazionale della Biennale di Venezia.

Grazie al Journey of California, invece, artisti sauditi tra i 18 e i 25 anni sono stati mandati nella Silicon Valley per formarsi presso Apple, Google, Facebook o al Museo di Arte Moderna di San Francisco e al Museo De Young.

Il Principe ha l’ambizione di collegare la cultura araba contemporanea a New York (considerata, non a torto, il centro anche culturale del pianeta), con mostre ed eventi al Metropolitan Museum e al MoMA. Il titolato “Met”, tuttavia, dopo la morte del giornalista Khashoggi, rifiuta il denaro saudita destinato al seminario “Collecting and Exhibiting the Middle East” finanziandolo con fondi propri. Le critiche spesso rivolte dal giornalista all’indirizzo della politica del Principe avevano ingenerato alcuni sospetti, peraltro mai confermati dalle indagini in seguito effettuate, sul possibile mandante. Le circostanze della scomparsa di Khashoggi non sono state mai del tutto chiarite. Il 19 ottobre 2018 la TV di stato saudita ne ha dichiarato la morte dopo un “diverbio” avvenuto presso il Consolato dell’Arabia Saudita a Istanbul.

È di tutta evidenza che i programmi “rivoluzionari” del Principe non trovano un’approvazione plebiscitaria nel Paese, e infatti “ci sono almeno tre gruppi scontenti: i salafiti, che sposano una versione fondamentalista dell’Islam, i principi della Casa regnante di Saud e (parte de)i comuni sauditi cui piacevano le cose così come erano”. (Fonte: “The Economist”, 6 gennaio 2022).

E INTANTO, VOLENDO PARLARE DI MODA…

Nel 1984 Abdullah Binzagr (insignito nel 2014 del titolo di“Cavaliere dell’Ordine della Stella d’Italia”dal Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano) e la moglie Wafaa Abbar, fondano l’Azienda Rubaiyat.

Pensata per commerciare nel settore del “lusso”, dopo 38 anni di attività Rubaiyat propone più di 250 marchi internazionali e continua a espandersi andando oltre i primi approcci nel franchising e nella distribuzione del lusso. Il suo nome, infatti, spicca nelle sponsorizzazioni culturali, nell’emancipazione femminile, nei progetti sociali e relativi alla salute pubblica e soprattutto nelle iniziative di scouting di stiliste. A tale scopo ha stretto una proficua collaborazione con “Vogue Talents”.

Tra i vari brand spiccano i nomi più celebri del mondo della moda e dello stile: dalle firme italiane come Gucci, Giorgio Armani, Dolce e Gabbana, Bottega Veneta, Ermenegildo Zegna, Brioni, Loro Piana, Larusmiani e Alberta Feretti, ad altre firme internazionali come Lanvin, Balmain, Balenciaga, DVF, Elie Saab e molte altre. L’attenzione di Rubaiyat non è solo rivolta al ready-to-wear, ma anche all’arredamento della casa e alla biancheria di lusso.

Ad aprile di ogni anno ha luogo un evento sfarzoso dedicato alla presentazione dei migliori talenti tra le “stiliste emergenti”.

Tra i nomi di stiliste lanciate da Rubaiyat si ricordano Nathalie Trad, Sandra Mansour, Rozan Nashar, Turk Jadallah, Reem Alhemaidan, Madiyah Al Sharqi, The Kayy’s, Tamashee, Haal Inc., Maia N., Masha Designs, Oya Handmade, Layla Bisharah, Nasiba Hafiz, Atulier, Rycaps e Fatema Fardan.

Rubaiyat rispetta e difende la diversità tra uomini e donne e a questo principio è stato riconosciuto il grande valore che merita con il successo della cofondatrice Wafaa Abbar, nominata Saudi Businesswoman of the Year nel 2010. Forte sostenitrice della responsabilità femminile, ha fatto sì che il 40 per cento dei dipendenti della società siano donne. Come dimostra la sua diffusa presenza in tutto il regno dell’Arabia Saudita, il punto di forza di Rubaiyat sta nell’offerta di un’esperienza di shopping senza precedenti.

Oltre ai marchi affermati, Rubaiyat ricerca e propone i migliori designer emergenti e contemporanei di tutto il mondo, tra i quali gli italiani Antonio Marras, Antonio Berardi, Atos Lombardini e Gianvito Rossi.

In aderenza a uno dei caposaldi della religione Musulmana, Rubaiyat destina parte dei proventi a iniziative umanitarie: si ricorda infatti la collaborazione con la National Home Health Care Foundation (NHHCF) per realizzare un progetto benefico a livello mondiale. L’obiettivo è quello di incrementare le risorse per l’NHHCF e di rafforzare la sanità e i servizi sociali offerti ai pazienti bisognosi e alle loro famiglie.

Per promuovere la consapevolezza del cancro al seno, nell’ottobre 2015 Rubaiyat ha ospitato un seminario dedicato alla clientela femminile presso il centro commerciale, sottolineando l’importanza della prevenzione, i metodi di trattamento e la diagnosi precoce.
Rubaiyat ha inoltre appoggiato la mostra “Les Routes de l’Arabie” al Museo del Louvre a Parigi per favorire una migliore comprensione della cultura dell’Arabia Saudita, sottolineando, allo stesso tempo, l’importanza di una formazione culturale transfrontaliera indispensabile nella vita di ogni essere umano.

Nato come cooperazione tra la Commissione Suprema per il Turismo e l’Antichità (SCTA) e i curatori del Museo del Louvre, l’evento ha presentato i risultati di oltre quattro decenni di ricerche e di scavi nel Regno dell’Arabia Saudita. Considerato che queste scoperte archeologiche non avevano mai attraversato i confini dell’Arabia Saudita moderna, è stato indubbiamente un evento senza precedenti.