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Femminismo islamico – Terza parte

In Iran il velo è diventato obbligatorio a partire dalla Repubblica Islamica (1979). L’abbigliamento femminile  è sempre stato oggetto di grande attenzione da parte delle istituzioni, tant’è che Reza Shah Pahlavi (1926-1941), fondatore dell’Iran moderno, impose nel 1936 la legge dello Svelamento Forzato (Kashf-e Hejab) che consisteva nell’adottare gli abiti occidentali invece di quelli tradizionali come segno di modernizzazione di tutto il Paese, così come dopo l’insediamento dello stato islamico il codice sull’abbigliamento è diventato uno strumento fondamentale per dimostrare a tutto il mondo che l’Iran “è uno stato islamico” distante dalla monarchia Pahlavi e dall’Occidente. In Iran, le donne e le associazioni femminili appoggiarono inizialmente la Rivoluzione del 1979, non pensando che un giorno avrebbero dovuto subire l’imposizione del velo ritrovandosi con un governo islamico che gli avrebbe fatto perdere gran parte dei diritti acquisiti nel periodo precedente grazie alle leggi sulla protezione della famiglia del 1969 e del 1973 che Khomeini annullò dopo due settimane dall’ascesa al potere.

Il movimento femminista in Iran ha lottato per ottenere la modifica di alcune leggi. Ma la legge sul velo obbligatorio è rimasta ed è stata motivo di arresto di tante attiviste che hanno protestato apertamente nel Paese, come Vida Movahed, Saba Kord Afshari e sua madre Raheleh Ahmadi. Grazie anche a campagne online, con il ricorso ai social media, queste donne sono riuscite far sentire la loro voce anche al di fuori dei confini iraniani.

La reazione all’intolleranza da parte del popolo iraniano, e soprattutto delle donne, si è espressa con l’uccisione della giovane Mahsa Amini, arrestata il 13 settembre 2022 e posta sotto custodia della polizia morale perché portava il velo in modo non consono alle leggi iraniane. E da quella prigione Masha non è mai uscita.

Questo tragico evento ha causato lo scoppio di manifestazioni in molte città, a partire dal funerale della ragazza nella sua città natale, Saqqez. Le donne sono scese in piazza protestando, bruciando le loro sciarpe e tagliandosi i capelli, un’iniziativa che ha generato la solidarietà di milioni di persone a prescindere da età, sesso, etnia e religione.

Le donne sono state quelle che maggiormente hanno sofferto. Sebbene nel mondo del lavoro il loro contributo sia fondamentale e occupino più del 50% dei posti nelle università – nonostante il regolamento discriminatorio delle “Quote Azzurre” applicato dal tempo di Ahmadinejad – e sebbene possano partecipare attivamente alla politica, non gli vengono ancora riconosciuti molti dei diritti primari e fondamentali e trovano difficoltà a essere elette in posizioni di decision-maker.

Tra i tanti diritti negati c’è quello di poter andare a vedere una partita di calcio. Questo divieto è stato la causa del suicidio di Sahar Sadayari, famosa con il soprannome di Dokhtar-e Abi, “Ragazza Blu”, avvenuto nel settembre 2019 quando Sahar manifestava contro il divieto imposto alle donne di andare allo stadio. La FIFA, dopo la sua morte, è riuscita a ottenere l’ingresso delle donne negli stadi per vedere alcune partite.

L’uso dei social media, come Facebook, Istagram, Tik Tok ecc. ha molto contribuito a denunciare le violenze perpetrate nei confronti delle donne, nonostante l’accesso a internet sia stato bloccato per un lungo periodo.

Dopo tante vittime dall’inizio delle rimostranze per la morte di Masha, molti giornalisti, attivisti, studenti, politici e manifestanti hanno aderito alle proteste che si sono diffuse dall’Iran ai Paesi vicini: Turchia, Iraq, Siria, Afghanistan e a molti altri Paesi del mondo, coinvolgendo persone di fama mondiale e politici stranieri.

Gli iraniani sono riusciti a far passare un messaggio forte al Governo e a tutto il mondo perché non ci si schieri più a favore di queste leggi discriminatorie, in particolare contro le donne, chiedendo un Governo giusto e un referendum, non contro la religione islamica in sé, ma contro il fondamentalismo religioso strumentalizzato a fini di potere politico e per la libertà di espressione. Una richiesta di sostegno sociale e umano su una questione nazionale che non ha bisogno di un intervento da parte del resto del mondo ma della solidarietà e del supporto di chi crede negli stessi diritti.

(Fine terza e ultima parte)